Gianfranco Ribaldone

 

 

 Una riflessione sul significato di fonte archivistica

 

 

 

A torto si ritiene che l’indicazione delle fonti archivistiche abbia unicamente il valore di giustificare la veridicità di una ricostruzione storica.

In realtà (e questo non sia considerato un paradosso) non sono le fonti funzionali alla ricerca storica, ma l’esatto contrario: il più prestigioso obiettivo che una rigorosa e razionale indagine archivistica può conseguire è la valorizzazione dei fondi archivistici su cui l’indagine stessa si è “fondata”.

Far sentire la presenza di una fonte significa anche comunicare il senso critico e dilemmatico della ricostruzione storica e, oserei dire, l’emozione stessa della ricerca.

Il valore antropologico di tale operazione è potenzialmente immenso. Può esserne testimonianza un experimentum condotto nell’anno 2002, nell’ambito di una tesi di laurea in antropologia sociale. In tale occasione fu consegnato ad una maestra di scuola elementare un mio volume, intitolato Alasina, ricostruzione del quotidiano di un paese monferrino d’inizio Cinquecento fondata sulle fonti notarili reperite nell’Archivio di Stato di Alessandria. Alla maestra fu raccomandato di scegliere due episodi, di leggerli ai suoi alunni (una classe V) e di cercare comunicare loro la nozione di “fonte archivistica”. Fui testimone dello svolgersi dell’experimentum e ne scrissi in un saggio (Gianfranco Ribaldone, La storia, Greta e lo stupore, in “Al païs d'”, n. 3, anno 2002, p. 4) che volentieri riporto.

 

La storia, Greta e lo stupore

 

Biella, 30 gennaio 2002. Nella classe V della scuola elementare dell’Istituto Lamarmora, Sabrina Coda Cap, laureanda in antropologia sociale, controlla gli sviluppi di un esperimento. La maestra Natalina Galleran legge ai suoi quindici scolari due episodi del libro “Alasina”: la voce scandisce lentamente ogni parola, ogni parola cade nella mente dei bambini come in una vuota ampolla e vi prende corpo.

Alla fine della lettura, un bambino, con irrefrenabile istinto, grida: “Che bello!”. La vita ha riconosciuto la vita...

La maestra propone ai suoi scolari uno svolgimento o un disegno, intorno a questo titolo: “Immerso in un’epoca lontana, attraverso la lettura del libro Alasina mi giunge una frase: 'Nel pallido sole il monatto gira per il paese, ma lei scandisce parole nuove'. Ed ecco che io rifletto e penso che...”.

Come, in un campo di grano battuto dal vento, le spighe si piegano ora tutte da una parte ora tutte da un’altra, a vicenda sorreggendosi, così, in questa classe di scuola elementare, le menti ancora acerbe hanno bisogno di rassicurarsi vicendevolmente: i bambini ora parlano tra loro ora pendono dalla bocca della maestra, come folate di vento le parole di uno diventano le parole di tutti. Ma a poco a poco la storia entra nel loro orizzonte, ognuno comincia a specchiarsi in essa, con i personaggi intesse il suo volto. Gli scolari iniziano a scrivere.

Alasina, sposa promessa, è ancora una bambina nella tenera immaginazione della piccola Carlotta: “Alasina è una bambina che ha due fratelli e una sorella, purtroppo i loro genitori sono morti. Suo padre, morto di peste, lasciò in eredità ad Alasina del denaro (fiorini). La ragazzina rimase stupita di tutto quel denaro e spiegò che a lei sarebbe bastato molto meno per le sue necessità. La parte in eccesso decise allora di darla ai suoi fratelli”.

Chiara F. non ha “mai sentito una storia più significativa di questa”. Perché il gesto di Alasina stupisce i bambini? Greta, con un disegno dalle tinte gioiose, dà un colore allo stupore: Alasina urla “No!”, rinunciando a parte della dote; il notaio sorride e batte sul banco con il martelletto; lo sposo promesso di Alasina, generoso come lei, pregusta la gioia che darà a due poverette, lasciando a loro parte dei suoi beni.

Tuttavia i quindici scolari biellesi, pur ammirando Alasina, non riescono ad immedesimarsi in lei: rinunciare a tanti soldi... La piccola Giulia taglia corto: “Penso che Alasina sia un’eroina a cui non importano i soldi”. Così argomenta: “Io penso che Alasina quei denari poteva usarli per fare una “ricerca” per guarire la gente dalla peste. Ma poteva anche tenerli per sé, perché erano un regalo da parte di suo padre”. Elisa usa tre punti esclamativi per dire: “Non sono sicura che in un momento come quello in cui lei si trovava e come il suo paese si trovava, cioè sottomesso dalla peste, io riuscirei a fare la stessa cosa!!!”. Riccardo con vivace eloquenza: “Credo che tutti, eccetto lei, dicevano “grazie” e si tenevano tutti i soldi senza preoccuparsi dei fratelli o delle sorelle”. Per il piccolo e saggio Thomas la questione sta nell’oculata e previdente gestione del budget familiare: “Questa storia mi fa riflettere su quanto era alto il rischio di morire a quei tempi e quanto era importante avere dei risparmi per poter pagare le cure e l’assistenza di qualcuno”.

Le vicende affioranti da un rogito del Quattro o Cinquecento sono avvolte dal silenzio: qualcosa dicono, molto lasciano in sospeso. Il mistero, cosa terribile e soave come il sole, attrae con feroce rapimento. Così Andrea B. percorre a suo modo la storia di Alasina, aggiungendo vicende che in essa non sono contenute: “Ma un’altra cosa che mi ha fatto riflettere è che di nascosto lei andava a dare da mangiare ai malati di peste, un giorno venne scoperta, arrestata e mandata in prigione”. Lasciamo che Andrea cammini nel cerchio magico della storia di Alasina, che è anche “la nostra storia” scrive Ludovico, ritrovata attraverso “alcuni documenti”, come dicono Chiara C., Gabriele, Alberto, Lodovico e Andrea G., suoi compagni.

Documenti da cercare, vedere, toccare, amare: il giorno 8 marzo 2002 i quindici scolari, accompagnati dal direttore della scuola, dalla maestra e da Sabrina Coda Cap, hanno esplorato l’Archivio di Stato di Biella. “Ora capisco perché...” scrive il piccolo Francesco.

Come destarsi una mattina e scoprire una lingua nuova.